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Il tampone positivo, la burocrazia, la TV e i vicini, il lutto: «La mia vita con il Covid a Molfetta»

Il racconto di un molfettese: «Io questo non lo auguro a nessuno. Come non lo auguravo alla mia famiglia»

"Non è successo a Bergamo in una primavera blindata. E non è successo nemmeno in una remota zona rossa di una qualche cittadina francese, o spagnola, o americana.
È successo qui, a Molfetta, in questo atomo piccolo che guarda al mondo attorno ancora con uno sguardo incredulo, scettico, ironico: la gente si accalca ancora sul Lungomare, si lamenta ancora della Fiera saltata, affolla i ristoranti delle prime comunioni e delle cresime, ballando attaccata e lamentandosi poi delle Giostre alla Secca dei Pali. O magari davanti a qualche farmacista indomito, parte con una filippica sulle libertà individuali e sul fatto accertato da MammaAnsiosa85 che, se indossi la mascherina, respiri una sorta di muffa mortale in barba ad ogni Burioni, Crisanti e Lopalco del caso.
Non che io possa sapere che cosa accada fuori, ad eccezione di quel piccolo spicchio che mi riservano le mie finestre: non lo posso sapere perché, mentre Conte doveva contrattare in televisione i minuti di apertura delle attività di ristorazione, io come decine, centinaia e migliaia di persone come me, ero in quarantena per il contatto diretto con una persona positiva al Covid-19.
Non si sa come il virus sia entrato nella vita della mia famiglia, così, d'improvviso, materializzandosi da spauracchio delle arene politiche ad una sorta di ospite ingombrante, seduto in salotto in mezzo a noi, intento ad alitarci sul collo di ansia e di angoscia. Non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai perché le variabili sono talmente tante che, ad un certo punto, ho rinunciato a ricostruire la trama dei contatti e dei contagi, acclimatandomi al fatto di non avere risposte.
Indossavi la mascherina? Certo. Anche quella volta in macchina con quattro amici dove, dalle altre macchine, ci indicavano ridendo.
Tenevi la distanza di sicurezza? Naturalmente. La misantropia diventa utile quando devi evitare affollamenti ed assembramenti.
Lavavi le mani con regolarità? Non serve nemmeno risposta. Hai implementato persino la politica di disinfettare lo smartphone ogni volta che torni a casa.
Eppure, come i lanzichenecchi che scendevano la Penisola nel Cinquecento, ci siamo trovati il virus dietro la porta di casa. E lo abbiamo scoperto nella maniera peggiore.
Quando ha attaccato una persona amata e che, in quel momento, era la più fragile tra noi. Qualcuno che non usciva, che aveva radi contatti, che non poteva essersi preso il Covid in Costa Smeralda o perché faceva la fila per entrare al Billionaire. Qualcuno a cui il virus era stato inconsapevolmente portato, anche da noi probabilmente, testimoniando quanto esso circoli subdolo e nascosto, acquattandosi nell'ombra come una specie di iena nella savana.
Non auguro a nessuno ciò che è successo dopo, alla notizia di un tampone di routine che aveva rivelato la positività. Non lo auguro a nessuno perché è uno scenario che tante, tante, tante volte è arrivato nei vari racconti della televisione, ma tu poi la televisione la spegni, ti distrai, pensi ad altro e naturalmente, fino a quando non succede a te, pensi automaticamente che ci sia qualcosa di non vero, di pompato, di relegato in una dimensione onirica da talk show con Maria Venier o Barbara d'Urso, dove vogliono farti scappare per forza la lacrimuccia.
Invece succede, e succede a te, e succede alla tua famiglia, e succede a quella persona fragile, e succede a Molfetta. E succede che la casa ti si chiude di nuovo addosso, ma stavolta non ci sono i canti sui balconi, la corsa al lievito e le dirette Instagram dei Ferragnez.
No. Stavolta il mondo fuori va avanti, si avvita ancora su sé stesso. Solo tu sei fermo in una bolla.
E magari fossi solo: no. Non lo sei.
Arriva prima la paranoia, ovviamente: ogni sintomo può essere quello rivelatore della malattia. Che, bastarda come è, non ha niente di così univoco per cui possa capire, davvero, se l'hai contratta o meno. Se sei asintomatico o meno. Se scoppierà all'improvviso con qualche esito che non puoi ancora immaginare, oppure resterà silente e nemmeno te ne accorgerai. Per te e per chi ti circonda.
Dopo, arriva la solitudine: perché l'isolamento spezza i legami, li taglia, li annienta. E se vuoi bene ad una persona, capisci di doverla proteggere non vedendola, non toccandola, non baciandola. Mandandola via persino, sentendola in un telefono fino a quando non hai più voce e non sai più che dire e continui ancora a parlare di sintomi, di statistiche, di incubazione, di anticorpi.
Quasi subito, arriva anche lo stigma sociale, perché questa è forse l'unica malattia per cui il malato deve giustificarsi di come e dove l'abbia presa, mettendosi a capo chino e tenendosi l'etichetta di eventuale untore. Nella confusione del momento, arrivano le domande. Rapide, ossessive, martellanti nei messaggi. Vince sempre su tutte: "Hai fatto il tampone?". C'è chi lo chiede perché si preoccupa. Ma c'è chi ti ha visto e allora diffonde voci allarmanti di terrore, evita ai balconi, scansa.
L'altra fidata compagna dell'isolamento, poi, è quella costante tutta italiana di ogni cosa sotto il sole: la burocrazia. Dopo la segnalazione al medico di famiglia, nella tua ingenuità pensi che si apra una procedura veloce e rapida che scioglierà i tuoi dubbi e le tue incertezze in pochi e ragionevoli giorni. Che risponderà a parte delle tue domande. Che ti consentirà di essere responsabile.
Perché tu vuoi disperatamente essere responsabile.
E c'è un attimo ben preciso in cui capisci quanto sia difficile e perché molti, poi, lasciano perdere.
Chi magari ha meno senso etico di te, meno senso del dovere, persino meno cultura ed intelligenza. O magari più disperazione, più impossibilità a fermarsi, più gestione di un rischio calcolato di fronte alla certezza di entrate che continuano a decrescere.
Dentro casa, quindi, smonti e rimonti il puzzle che i medici, le Asl, i laboratori di analisi, le voci di corridoio ti mettono davanti agli occhi.
Se sei contatto diretto di una persona positiva, hai l'obbligo della quarantena e della segnalazione all'ASL che ti dà diritto al tampone molecolare. Se sei contatto indiretto, invece, niente del genere. Inoltre, se sei contatto diretto ma si scopre la positività del contatto stesso dopo sette giorni dall'ultimo incontro, la ASL non ritiene di doverti più controllare.
Perciò, se sei un contatto indiretto, non hai nessun obbligo giuridico di controllarti o segnalarti. Dovresti aspettare l'eventuale positività del tuo di contatto che, magari, sarà chiamato a fare il tampone dopo dieci giorni di quarantena e che, se anche ne rivelasse la positività, significherebbe che comunque per te non ci sarebbe più alcun dovere di controllo.
Le maglie del sistema si allargano e fuori sfuggono decine di persone che tu stesso, da contatto diretto, hai incontrato: c'è chi in maniera responsabile si metterà comunque in quarantena, dovendo poi districarsi nella selva degli accertamenti a pagamento. Il posto di lavoro vuole il tampone molecolare, ma privatamente non lo fa più nessuno. E la ASL non ritiene di dovertelo fare.
E allora si ritorna alla responsabilità.
Probabilmente se non sei ancora stanco, opterai per un tampone antigenico o per un sierologico.
Ma quanti invece sfuggiranno, non preoccupandosi del problema?
Perché restare saldi davanti alle spallucce di un medico, al commento inerme di un datore di lavoro, alle urla di sottofondo che senti nelle chiamate dell'oberata ASL, non è semplice.
E, ad un certo punto, in un punto preciso della quarantena, ti pentirai di esserti denunciato.
Ti pentirai di essere stato onesto.
Ma non è questa la parte peggiore. Nonostante tutto, niente di questo è la parte peggiore.
La parte peggiore stava in agguato dall'inizio, ma non ci hai mai voluto pensare.
Dall'inizio, da quando la positività viene fuori dalla persona più fragile della famiglia che si ammala, che viene ricoverata in ospedali sempre più pieni di pazienti e sempre più oberati di liste di attesa.
La parte peggiore viene fuori quando una persona che ami è in ospedale e tu non puoi farci niente. Non puoi andare a trovarla: e sei legato mani e piedi.
Perché tu non puoi uscire. E comunque in ospedale non si potrebbe andare.
E la preoccupazione ti soffoca tra le stanze chiuse, che misuri a grandi passi, che mastichi a pianti smorzati, che anneghi nelle trasmissioni sempre uguali.
La parte peggiore si consuma quando l'epilogo, già in agguato dall'inizio, succede. Ed è rapido, veloce, perché questa malattia, quando trova un terreno fertile, è peggio dell'incendio di una boscaglia. Brucia tutto nel suo percorso, si porta via persone che ami in un battito di ciglia.
Senza salutare, senza dire addio, senza consolare: e sei solo in una stanza, resti solo perché hai il dovere di proteggere chi è rimasto, resti solo senza pianti e senza fiori. Perché non si possono fare funerali, le tumulazioni sono veloci. Non ci si può abbracciare, incontrare.
Si sta solo nei telefoni a sentirsi respirare.
E per giorni, per giorni, non sarà nemmeno vero. Lo strappo sarà stato così crudele che la mente lo rigetta, lo rifiuta.
D'altronde sei ancora chiuso in casa, non hai nessuna coscienza che, fuori da quella porta, assieme a tutto il mondo, ad aspettare non ci sia anche la persona che, invece, hai perso. Per sempre.
Quindi, in verità, per te non è successo niente. Non hai compreso niente.
Ed è questo l'autentico fondo, perché assieme a tutto il resto, vivi anche del terrore di quando finalmente capirai. Comprenderai. E non ci sarà più niente a tenerti assieme.
Io questo non lo auguro a nessuno.
Non lo auguro nemmeno a chi affolla i social che, nella quarantena, per te sono il peggiore dei compagni. Chi ancora vomita di banale influenza, di esagerazioni, di morti per tumore nello stesso anno, di terrorismo psicologico.
E chi, mentre tu hai dentro un lutto che non sai piangere, scrive ancora con il cinismo del presunto indenne che, in fondo, i morti muoiono con il Covid.
Non di Covid.
Che tanto sarebbero morti comunque.
Tutti saremmo morti comunque: è la condizione dell'essere umano, la condanna e la bellezza dell'essere mortali. Tutti moriremo comunque. Ma una delle cose più belle nell'esistenza è riuscire in parte a scegliere come o quando. E in questo sta tutta la dignità dell'essere umano.
Avere più tempo per mettere a posto qualcosa. Per fare un saluto. Per lasciare un ricordo. Per portare un ammonimento. Per dare un consiglio. Per chiedere perdono. Per perdonare.
Per chiudere un cerchio, e poi addormentarsi nella serenità di chi ti ama.
Chiunque non riesca a capire quale tragedia sia questa, chiunque si arroghi il diritto di decidere in modo arbitrario di chi debba vivere e chi no, chiunque pensa di avere una voce in capitolo nel tempo che la vita dona ad ognuno di noi, e tutto perché vuole difendere il suo diritto all'aperitivo accalcato in piazza, senza mascherina, senza distanza, senza precauzioni… a costoro, io non auguro quello che è successo a noi.
Non lo auguro comunque.
Come non lo auguravo alla mia famiglia.
Ma questa pandemia, questa tragedia, questo virus, se insegna qualcosa, prima della zuccherosa utopia di renderci migliori, insegna questo: la tragicità guasta del caso e di quanto contrarre questo virus sia, al netto delle precauzioni, qualcosa di più simile ad una roulette russa che ad un gioco di carte con regole stampate sulla pietra.
E questo ovunque.
A Bergamo in una primavera blindata.
In una remota zona rossa di una qualche cittadina francese, o spagnola, o americana.
E a Molfetta, in questo atomo piccolo che guarda al mondo attorno ancora con uno sguardo incredulo, scettico, ironico".
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