Con drappo rosso Molfetta ricorda la tragedia del “Moby Prince”
Emanuele Abbattista, il figlio di una delle quattro vittime molfettesi, fa il punto della situazione giudiziaria
Molfetta - sabato 11 aprile 2020
8.14
Anche le commemorazioni ai tempi del coronavirus assumono nuove forme. Non potendo riunirsi in un evento pubblico, i familiari delle vittime del "Moby Prince" (29 anni ieri dalla tragedia, ndr) hanno deciso di mettere ai propri balconi un drappo rosso.
Molfetta anche in questa tragedia pagò il suo prezzo altissimo quattro marittimi: i motoristi Giovanni Abbattista (45anni) e Natale Amato (53 anni), il personale di cucina Giuseppe de Gennaro (29 anni) e Nicola Salvemini (36 anni).
Dicevamo, un drappo dello stesso colore delle fiamme che hanno avvolto quel traghetto, uccidendo 140 persone. Una tragedia, ancora oggi, dalle molte ombre e dalle molte domande che attendono ancora risposta, una su tutte: "quella notte si fece veramente tutto per salvare gli uomini del "Moby Prince?"
Chiaramente è la risposta che attendono da anni i familiari delle vittime, eppure oggi hanno una nuova consapevolezza come ci spiega Emanuele Abbattista, figlio di Giovanni: «nella relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta del Senato della Repubblica sulle cause del disastro del traghetto "Moby Prince" del 22 gennaio 2018 il nome di mio padre, Giovanni Abbattista, è citato nella parte riguardante "La sopravvivenza a bordo del traghetto".
Dalle indagini tossicologiche e dalle analisi condotte emerge che "Tutto l'impianto della sentenza di primo grado è retto dalla convinzione, supportata dalla perizia medico-legale disposta dal pubblico ministero, secondo la quale in un lasso di tempo molto breve, e simile per tutti, all'interno il traghetto fossero tutti morti. In base alla perizia allora redatta dall'equipe medico-legale guidata dal professor Bargagna, quindi i tempi di sopravvivenza non superarono la mezz'ora. La sopravvivenza limitata in circa 30 minuti per tutte le vittime o gran parte di esse non spiegherebbe tuttavia alcuni fatti incontestabili. (…)
I casi delle due persone ritrovate in sala macchine, il passeggero Baldauf e il marinaio Abbattista, con alti livelli di carbossiemoglobina fanno ritenere che la morte non possa essere sopraggiunta in soli 30 minuti"».
Continua Emanuele: «Questa conclusione ha da poco, quindi, scardinato un totem acquisito per anni dagli inquirenti, ovvero che fossero tutti morti nel giro di mezz'ora e che quindi fosse inutile attivare i necessari soccorsi.
Ma per mio padre, come hanno dimostrato gli esami condotti, non fu così. Per molti versi si può sostenere che mio padre, come altri, restò in vita molte ore dopo la collisione, nel disperato tentativo di ricevere un soccorso che chi di dovere non ha mai posto in essere».
Da dove nasce l'idea di mettere un drappo rosso ai balconi per ricordare la tragedia della Moby Prince?
«L'idea del drappo rosso sui balconi è stata proposta sul gruppo Facebook "Moby Prince: Quelli che esigono giustizia" da Loris Rispoli, uno dei principali promotori, tra i familiari delle vittime, delle iniziative volte a sostenere il percorso per la ricerca della Giustizia e per mantenere viva la Memoria di quel tragico incidente.
L'idea è semplice e, come la gran parte delle cose semplici è anche geniale. In un tempo in cui non possiamo stare vicini, anche lì a Livorno, staremo vicini con un gesto: colorare le nostre finestre e i nostri balconi con un drappo rosso. Per comunicare al mondo, questa volta soprattutto attraverso internet, che ci siamo, siamo una comunità che pretende la giustizia, giustizia per 140 vittime.
Io ho accolto questo invito e fatto circolare tra i miei parenti e miei amici una richiesta: "colorate le strade di Molfetta con panni rossi, per non dimenticare". Fino a sera in tantissimi mi hanno mandato foto di panni rossi stesi per la città. In questo modo Molfetta, anche se virtualmente, c'era. Onorando i suoi quattro concittadini caduti in mare, abbracciando la comunità che ogni anno si raccoglie in questa data per rinnovare una promessa: non dimenticare, senza la Verità non c'è giustizia».
Raccontare i 29 anni è impossibile, ma a che punto sono le indagini?
«La Relazione del Senato, come già accennato, ha di fatto ribaltato le conclusioni dei precedenti giudizi dei processi tenutisi in passato, aprendo nuovi filoni d'indagine e nuove prospettive d'inchiesta. Due nuovi fascicoli sono stati aperti dalle Procure di Livorno e di Roma. Contestualmente è stata avviata un'azione legale, da parte dei familiari, al fine di superare gli assunti che hanno convinto la Procura della Repubblica di Livorno a iscrivere nel 2010 la richiesta di archiviazione perché nulla più era da accertare.
La tragedia, è ormai acquisito, non è occorsa per la presenza della nebbia o dovuta alla condotta superficiale dell'equipaggio. Questi elementi, nei processi a causa "dall'indagine sommaria svolta dalla stessa Capitaneria di porto e precisamente dagli stessi soggetti direttamente coinvolti nella gestione dei soccorsi, alcuni dei quali coinvolti anche nelle vicende giudiziarie successive", sono stati sistematicamente smontati sia dalle ricostruzioni dei tecnici e dei legali vicini ai familiari che da altri esperti indipendenti.
In realtà ciò che sosteniamo sia realmente avvenuto, ora come allora, e che "non siano stati prestati i soccorsi dovuti al traghetto Moby Prince".
Il mancato coordinamento e la sostanziale assenza di intervento nei confronti del traghetto "Moby Prince" ha di fatto decretato una condanna a morte per chi, come mio padre, tentò disperatamente di aggrapparsi alla vita, nel vano tentativo di sopravvivere per poter riabbracciare la propria famiglia.
Ora più di allora chiedo, insieme a mio fratello, verità e giustizia per mio padre, per gli altri tre marittimi molfettesi e per tutte le altre vittime del "Moby Prince", consapevole che molte delle mie, nostre richieste, siano ancora tristemente condivise da tante altre famiglie di caduti in mare».
Molfetta anche in questa tragedia pagò il suo prezzo altissimo quattro marittimi: i motoristi Giovanni Abbattista (45anni) e Natale Amato (53 anni), il personale di cucina Giuseppe de Gennaro (29 anni) e Nicola Salvemini (36 anni).
Dicevamo, un drappo dello stesso colore delle fiamme che hanno avvolto quel traghetto, uccidendo 140 persone. Una tragedia, ancora oggi, dalle molte ombre e dalle molte domande che attendono ancora risposta, una su tutte: "quella notte si fece veramente tutto per salvare gli uomini del "Moby Prince?"
Chiaramente è la risposta che attendono da anni i familiari delle vittime, eppure oggi hanno una nuova consapevolezza come ci spiega Emanuele Abbattista, figlio di Giovanni: «nella relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta del Senato della Repubblica sulle cause del disastro del traghetto "Moby Prince" del 22 gennaio 2018 il nome di mio padre, Giovanni Abbattista, è citato nella parte riguardante "La sopravvivenza a bordo del traghetto".
Dalle indagini tossicologiche e dalle analisi condotte emerge che "Tutto l'impianto della sentenza di primo grado è retto dalla convinzione, supportata dalla perizia medico-legale disposta dal pubblico ministero, secondo la quale in un lasso di tempo molto breve, e simile per tutti, all'interno il traghetto fossero tutti morti. In base alla perizia allora redatta dall'equipe medico-legale guidata dal professor Bargagna, quindi i tempi di sopravvivenza non superarono la mezz'ora. La sopravvivenza limitata in circa 30 minuti per tutte le vittime o gran parte di esse non spiegherebbe tuttavia alcuni fatti incontestabili. (…)
I casi delle due persone ritrovate in sala macchine, il passeggero Baldauf e il marinaio Abbattista, con alti livelli di carbossiemoglobina fanno ritenere che la morte non possa essere sopraggiunta in soli 30 minuti"».
Continua Emanuele: «Questa conclusione ha da poco, quindi, scardinato un totem acquisito per anni dagli inquirenti, ovvero che fossero tutti morti nel giro di mezz'ora e che quindi fosse inutile attivare i necessari soccorsi.
Ma per mio padre, come hanno dimostrato gli esami condotti, non fu così. Per molti versi si può sostenere che mio padre, come altri, restò in vita molte ore dopo la collisione, nel disperato tentativo di ricevere un soccorso che chi di dovere non ha mai posto in essere».
Da dove nasce l'idea di mettere un drappo rosso ai balconi per ricordare la tragedia della Moby Prince?
«L'idea del drappo rosso sui balconi è stata proposta sul gruppo Facebook "Moby Prince: Quelli che esigono giustizia" da Loris Rispoli, uno dei principali promotori, tra i familiari delle vittime, delle iniziative volte a sostenere il percorso per la ricerca della Giustizia e per mantenere viva la Memoria di quel tragico incidente.
L'idea è semplice e, come la gran parte delle cose semplici è anche geniale. In un tempo in cui non possiamo stare vicini, anche lì a Livorno, staremo vicini con un gesto: colorare le nostre finestre e i nostri balconi con un drappo rosso. Per comunicare al mondo, questa volta soprattutto attraverso internet, che ci siamo, siamo una comunità che pretende la giustizia, giustizia per 140 vittime.
Io ho accolto questo invito e fatto circolare tra i miei parenti e miei amici una richiesta: "colorate le strade di Molfetta con panni rossi, per non dimenticare". Fino a sera in tantissimi mi hanno mandato foto di panni rossi stesi per la città. In questo modo Molfetta, anche se virtualmente, c'era. Onorando i suoi quattro concittadini caduti in mare, abbracciando la comunità che ogni anno si raccoglie in questa data per rinnovare una promessa: non dimenticare, senza la Verità non c'è giustizia».
Raccontare i 29 anni è impossibile, ma a che punto sono le indagini?
«La Relazione del Senato, come già accennato, ha di fatto ribaltato le conclusioni dei precedenti giudizi dei processi tenutisi in passato, aprendo nuovi filoni d'indagine e nuove prospettive d'inchiesta. Due nuovi fascicoli sono stati aperti dalle Procure di Livorno e di Roma. Contestualmente è stata avviata un'azione legale, da parte dei familiari, al fine di superare gli assunti che hanno convinto la Procura della Repubblica di Livorno a iscrivere nel 2010 la richiesta di archiviazione perché nulla più era da accertare.
La tragedia, è ormai acquisito, non è occorsa per la presenza della nebbia o dovuta alla condotta superficiale dell'equipaggio. Questi elementi, nei processi a causa "dall'indagine sommaria svolta dalla stessa Capitaneria di porto e precisamente dagli stessi soggetti direttamente coinvolti nella gestione dei soccorsi, alcuni dei quali coinvolti anche nelle vicende giudiziarie successive", sono stati sistematicamente smontati sia dalle ricostruzioni dei tecnici e dei legali vicini ai familiari che da altri esperti indipendenti.
In realtà ciò che sosteniamo sia realmente avvenuto, ora come allora, e che "non siano stati prestati i soccorsi dovuti al traghetto Moby Prince".
Il mancato coordinamento e la sostanziale assenza di intervento nei confronti del traghetto "Moby Prince" ha di fatto decretato una condanna a morte per chi, come mio padre, tentò disperatamente di aggrapparsi alla vita, nel vano tentativo di sopravvivere per poter riabbracciare la propria famiglia.
Ora più di allora chiedo, insieme a mio fratello, verità e giustizia per mio padre, per gli altri tre marittimi molfettesi e per tutte le altre vittime del "Moby Prince", consapevole che molte delle mie, nostre richieste, siano ancora tristemente condivise da tante altre famiglie di caduti in mare».